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Memorie: Angelo Pisoni

Angelo Pisoni

Nato nel 1914 da Cesare e da Maria Caccia, fu uno dei 300.000 soldati che nel maggio 1943 si ritrovarono d'improvviso prigionieri degli Alleati nel Nordafrica. Quella che segue è l'elaborazione "incrociata", a cura di Walter Cervi, di una registrazione effettuata da Noemi - nipote di Angelo Pisoni, ul Gulètu - e di una conversazione avuta da Cervi con lo stesso Angelo.

1943, dalla Tunisia al Marocco - Angelo Pisoni racconta.
"Sono nato nel 1914. Superata la visita di leva, prestai il servizio militare come semplice artigliere a Novara. Mi rivedo a cavallo in una foto di quell' epoca.
Nel settembre del 1939 scoppiò la guerra. Hitler voleva conquistare l'Europa.
L'Europa? Il mondo.
L'Italia e la Germania formarono un patto.
Mussolini dichiarò guerra alla Francia.
Hitler, l'Inghilterra, la voleva proprio distruggere.
E così fui richiamato alle armi. Era il 25 novembre del 1940. Artiglieria di Campagna 17 - Novara... Ben presto m'inviarono a Salerno. Quindi, alla volta di Caserta, per finire a Palermo. Da Novara a Palermo, rimasi in gruppo con un compaesano, Luigi Bandera, leva 1913. E con lui restai anche dopo Palermo.
Il 5 novembre del 1942 nella furibonda battaglia di El Alamein, Rommel fu sconfitto e costretto a ritirarsi, in seguito all'offensiva del generale inglese Montgomery.
Il 12 novembre, continua il libro di storia, le truppe americane di Eisenhower completarono gli sbarchi in Algeria e in Marocco. E lì, i reparti francesi della repubblica di Vichy (collaborazionista coi nazisti) si arresero. Al che, rilevata la flebile resistenza opposta dai soldati della Francia di Pétain - Algeria e Marocco erano due colonie francesi -, i comandi tedeschi e italiani pensarono bene di occupare tutta intera la Francia. Compresa, dunque la repubblica di Vichy. Dal pensiero non sfuggì neanche la Tunisia. Ma, a dispetto di ciò, la tenaglia anglo-americana si stava chiudendo.
Quand'ero dunque a Palermo, nel dicembre 1942, arrivò quest'ordine: "Spostarsi in nord Africa, Tunisia". Ci imbarcammo. Al porto di Infidavil (è scritto giusto?) misi piede in Africa.
Eravamo vicino a Tunisi. Qual era il paese? Ma che paese? Là non c'erano mica i paesi come da noi! Non è come qui che c'è Dairago e poi Borsano eccetera. Là i paesi distavano decine e decine di kilometri. Per giunta, non eravamo stabili in un posto, ma abbiamo fatto sosta in varie località. Tuttavia, mi ricordo di una di loro: Santa Maria de Zit.
Eravamo in zona di guerra, o quasi. Infuriavano, si, i combattimenti, ma più a sud, verso la Libia.
Il 23 gennaio del'43 gli inglesi entrarono a Tripoli e la Libia passò sotto il controllo degli Alleati. E i soldati tedeschi? E i soldati italiani che erano là? Ripiegarono tutti in Tunisia.
Ad onor del vero, dove eravamo noi, non abbiamo sparato neanche un colpo di moschetto.
Il fronte della battaglia era più a sud.
Intanto, gli inglesi risalivano da sud e gli americani si spostavano da ovest. Dal 21 al 26 marzo '43, le truppe dei due eserciti attaccarono gli italo-tedeschi, obbligandoli a risalire a nord della Tunisia.
Nei combattimenti, gli Alleati ebbero il sopravvento e il 7 maggio entrarono in Tunisi. La settimana dopo, la resa italo-tedesca fu totale. I prigionieri furono circa trecentomila. E io fui uno tra loro.
Cosa ricordo della resa? Quella sera, con gli altri soldati, mi trovavo a Zaghouan (una quarantina di kilometri a ovest di Hammamet). Di rancio, a mezzogiorno, il cuoco ci aveva preparato la minestra. Per la sera ci aveva annunciato ancora brodo. Gli avevamo, allora, espresso un nostro desiderio: pastasciutta. "Vi accontento", disse ripensandoci. "Pastasciutta per tutto il campo".
Prima di cena, vedemmo alcuni aerei sopra le nostre teste. Il rombo andò intensificandosi, la confusione e il timore aumentarono. Quella sera - morale del discorso - saltammo la cena.
Dai nostri superiori, era giunto l'ordine di arrenderci tutti. Agli Alleati spettò il compito di decidere del nostro futuro. Ufficiali francesi (si pensi a "Francia libera") e soldati marocchini ci presero in consegna. Per incominciare, fecero propri i nostri mezzi (camion e altro). I "francesi" non erano poi cosÌ attrezzati.
Siamo rimasti a Zaghouan ancora sette, otto giorni. Poi, noi prigionieri fummo divisi in gruppi di mille uomini ciascuno. Squadre di mille uomini. Iniziò la marcia. Diritto, verso occidente. A piedi, in fila per cinque, scortati da squadre di soldati algerini e infine marocchini. Mille kilometri a piedi. Il mio superiore me l'aveva detto: "Pisoni, tieniti le tue scarpe! Non metterti quelle nuove. Non sappiamo quanta strada faremo!"
Ahimé, non l'ascoltai. Ma sentii, eccome, le fiacche. Che fiacche!
Marciando di notte, in un mese o poco più, arrivammo dunque a Costantina, in Algeria, non distante dal confine con il Marocco. Che bel posto che era Costantina! Eravamo in un campo spazioso e pulito. Tende ben tenute, con della paglia bianca come il giglio. Stavamo sei per tenda. Rimanemmo in quel posto baciato da Dio un giorno e una notte. Peccato. Arrivò troppo presto l'ordine di proseguire per il Marocco. In treno, stavolta.
Ci accomodammo cinquanta per vagone, scortati da qualche guardia marocchina. Per riposare ci accovacciavamo. Il treno sbuffava, ma spesso si metteva su un binario morto e lì rimaneva in sosta anche per un'intera notte. Perché? La linea su cui correvamo era unica. Bastava ci fosse in circolazione un treno con carico militare e quello aveva senza dubbio la precedenza. Noi potevamo ben aspettare. lo aspettavo. La premura, in certe circostanze, non è niente, non ha neanche un nome. Su quel treno, mi trovavo ancora con Luigi Bandera. Ogni tanto ci guardavamo, ma poco avevamo da raccontarci.
Senza foga, il treno arrivò a Casablanca. In quella stazione, noi "passeggeri" fummo divisi in due gruppi. Il primo gruppo fu inviato a Marrakech. In quello c'era il mio amico Luigi Bandera. Fu un pò più fortunato di noi. Finì nella "sussistenza", ovvero in un luogo dove si aveva a che fare anche con le cibarie. lo, invece, finii nel secondo gruppo, quello destinato a Mesha Mena Bu, trenta quaranta kilometri da Casablanca.
Un lavoro ingrato ci attendeva.
In quella località, costruimmo un campo: le tende, una baracca e tutto il reticolato periferico. Il compito fissato per noi era la costruzione di una strada che collegasse lo stesso campo alla vicina stazione ferroviaria. Ecco, la strada. Noi prigionieri, allo scopo, dovevamo fornirne la ghiaia.
Come fare? C'era una collina che si offriva come cava. La dovevo risalire e lì, come ogni altro compagno fortunato come me, fortunato "come un cane in chiesa", sollevavo da terra le pietre che altri non più fortunati di me preparavano. Le mettevo in spalla per poi, in fila indiana, scendere al piano della strada, laddove altri prigionieri ancora, a forza di muscoli; le frantumavano. Trasportandole sulle spalle, le pietre ad ogni passo si facevano sempre più pesanti. Non so come spiegarla...
In tale sventurata occasione, tra di noi c'era un ragazzo di Legnano, certo Pinciroli. Questi, stanco, fu indotto a pensare a come risparmiare le energie, che ormai erano modestissime. Pensò e mi comunicò il suo pensiero. Un pensiero furbo. Eccolo: "Angioletto," sussurrò con fare illuminato, "rimaniamo in fondo. Nella motta di sassi, poi, scegliamo bene e solleviamone uno piccolo. Così, almeno, sai..." lo lo ascoltai, gli diedi retta. Scelsi, come lui, una pietra piccola e mi incamminai verso il basso. A controllarci, c'era una guardia, un soldato della legione straniera francese. Era di nazionalità tedesca. Aveva visto e capito tutto. Si sganciò flemmatico la cintura, la sfilò e, arrivati a tiro, ci sferzò entrambi con grande energia. Un paio di colpi per ciascuno. Una severa lezione. Così imparammo a non pensare e, soprattutto, a non portare pietre leggere. Niente pensieri e niente pietre balosse!
A Mesha Mena Bu siamo rimasti circa tre mesi. Quanta sete! Quanta fame. Non c'era niente lì? Certo che qualcosa da mangiare e da bere ci sarà anche stato! Solo che i nostri guardiani della legione straniera ci davano pochino pochino. A mezzogiorno e a sera, ci allungavano una gavetta d'acqua che doveva bastare per cinque. Sì, qualcosa ci davano anche da mangiare: le melanzane sotto sale. Non c'era acqua da bere e quelli ci davano melanzane sotto sale! Figuriamoci. Più seriamente, mi ricordo i ranci a base di piselli, i petits pois, e i piselli nella versione "spaccata", che loro, i francesi, chiamavano porcassé.
Di notte sentivamo gli spagnoli, i tedeschi e tutti gli altri della legione cantare. Cantavano, brilli com'erano.
A settembre, ci riportarono a Casablanca. Il nostro albergo era circolare e con le gradinate. Albergo? Ci rinchiusero nell'arena, dove in tempi migliori si svolgevano le corride con i tori. Di giorno, ci mandavano a gruppi per certi lavori di fatica, carico e scarico di munizioni e cose del genere.
Quando ci ritiravamo in quel nostro albergo, ci riposavamo sugli spalti. Stesi. La notte era sopra di noi con tutte le sue stelle. Sotto di noi, invece, piögi e püas, pidocchi e pulci. Cel e piögi!, cielo e pidocchi. A Casablanca rimasi ospite da settembre fino al quattro novembre, giorno in cui, ad alcuni di noi - e io ero tra quelli - dissero che c'era il padrone di una fattoria che cercava manodopera. Detto fatto, passai con altri sei nell'azienda agricola condotta da un francese. Distava qualche decina di kilometri. Lavoravamo in campagna. Facevamo il lavoro che sapevamo già fare. Zappare, badare ai carciofi, ai pomodori, ai piselli, al grano, alla segale. Seminare e mietere. C'erano piante da frutta, c'erano le viti. Curavamo anche un giardino. A noi sette, il padrone, talvolta, ci passava sufficiente farina per fare la pasta. A parte i piselli, che non mancavano mai. Lavoravamo anche in quella fattoria, ma certamente in modo più tranquillo. Ci assegnavano un lavoro? Era presto fatto, e fatto bene. E in modo più spiccio di quanto non facessero i locali. Risultato, ci avanzava anche del tempo per pigrare. Giorno dopo giorno, rimasi in quella azienda fino alla conclusione della guerra.
Finita la guerra, tornammo per una settimana a Casablanca. Ma nessuno aveva premura a che noi ritornassimo a casa. Messi tutti insieme, noi italiani eravamo un bel numero. Per il ritorno ci voleva proprio una nave. E chi se la cacciava, in Marocco, per organizzarci una crociera nel Mediterraneo verso l'Italia?
Saputo di noi, in Italia organizzarono l'invio di una nave. La nostra pazienza fu premiata. Rimpatriammo, sbarcando a Napoli. Rimisi piede in Italia! Con il treno la risalii per un bel po'. Era un'Italia tutta rotta. Ai primi di marzo del 1946 arrivai, infine, a Dairago. Un anno, quasi, dalla fine della guerra. Cercai subito lavoro per avere pane da mangiare. Così fece pure Luigi Bandera che a Dairago rividi con gioia". (w. ce.)