Osservazioni su alcune espressioni e modi di dire.
Al vår püsé un bal posu / ke ’na mika sot’al ghosu lett.: vale di più un bel riposo che avere un panino sotto il gozzo. ‘Talvolta è meglio riposare che mangiare’.
Gh’e ‘ndåi a våka ind’i verdzi ‘la situazione ha preso una svolta sfavorevole. Un disastro, senza possibilità di rimedio’. Lett.: è andata la vacca nelle verze (e chi riesce a evitare lo scempio della sua abbuffata?).
Gh'e poku da sfuiå verdzi. Letteralmente c'è poco da sfogliare verze. Per dire che non è il caso di essere troppo ottimisti, né di scialare. La verza ha tante foglie che sembra di non arrivare mai all'ultima, al cuore. Si ha l'impressione di abbondanza.
Katå i ghaleti. Letteralmente: sbozzolare, sfrascare. Espressione legata alla coltivazione del baco da seta. Il Cherubini, alla voce singolare galètta, riporta: “Gomitolo ovato che il baco filugello tesse dintorno a se stesso per incrisalidarvisi, e di cui l’uomo trae poscia la seta”. Mettere da parte i ghaleti equivale ad avere raggiunto felicemente lo scopo della laboriosa campagna. Fatto quello, arrivava il compenso. L’espressione Katå i ghaleti, dunque, significa ‘guadagnare’, ‘conoscere un momento favorevole e fortunato’. Terminologia: bachi, filugelli, bigatti erano chiamati (plurale) i ka(v)aléi. Breve fenomenologia del baco: tutto prendeva le mosse da cartine ricevute dal padrone con sopra le larve (dette anche semi) del baco, a sumεntsa di kaaléi. Il contadino riceveva larve (come misura si parlava di ontsi) in proporzione al numero di gelsi che aveva in affitto insieme alla terra da coltivare. In ambiente caldo giusto, poi, l’insetto mangiava la foglia e cresceva. La foglia del gelso (ul muon) veniva allo scopo ben trinciata e quella sorta di tagliere utilizzato prendeva nome di a trieta, che resta ancora adesso il nomignolo da rifilare a persona che parla velocemente, a raffica. Così, sulla propria stuoia di cannette, il baco cresceva. Cresceva e viveva meglio dei suoi allevatori che nel frattempo preparano rami, le frasche, ul busku, tra le stuoie messe in pila, una sopra l’altra, a distanza di alcune spanne dove il bigatto saliva e si involveva nel bozzolo. Si faceva pian piano crisalide (burdoku, ghaten) nel bozzolo serico ispessito per avviarsi a trasformarsi in insetto perfetto, “farfalla”, parpåia. La persona cagionevole di salute è detta rišion. Detto termine usato non proprio come complimento, è inscritto nel contesto della metamorfosi del baco. Rišiuni – ricorda Cherubini – sono detti i bachi “che si stecchiscono incrisalidando sulle stuoje, non salgono alla frasca e vanno a male”. Altro termine (irriguardoso) preso dallo stesso contesto è maršon colto dal Cherubini in riferimento ai “bachi da seta anneriti o imputriditi per ribollimento”. Gialdon, infine, denota una malattia del baco. Termine esteso con poca finezza anche agli umani. Insomma, dopo tutto l’impegno profuso (ci si è scordati di elencare altre operazioni come quella con lo zolfo e con il fumo) e i rischi corsi, accantonare al sicuro i bozzoli non era cosa di poco conto nell’economia povera dei nostri avi. Ogni bozzolo ripulito era una gioia.
Kuann ke a léghua l’e ’n pe, tüti (a) i gha kuran a dre ‘quando con fatica si mette in pubblico qualcosa di rilevante (una bella trovata, una faticosa scoperta), allora tutti si sentono autorizzati a parlarne, a commentare. Come ne fossero loro gli artefici’. Lett.: quando la lepre è in piedi, allora tutti la rincorrono. E che facevano prima?
Kuann gh’e skapåå ’l puršell, / a i saran sü ’l stabiell, lett.: (solo) quando è scappato il maiale, chiudono la recinzione, ‘a danno avvenuto si peritano di porre inutile rimedio’. Non si poteva pensarci prima?
Pazå i pom designa l’abbiocco. È il beccheggiare col capo che segna l’appisolamento. Oscillare come una bilancia che pesa qualcosa.
Sül prüm kumincå ‘all’inizio’, lett.: sul primo incominciare. L’espressione potrebbe tradurre anche il C’era una volta.
Sü ültam finí ‘alla fine’, lett.: sull’ultimo finire. Questa e la precedente erano espressioni tipiche usate a indicare la posizione di una certa scena o situazione in uno spettacolo (film).
Vεsi un magnan. Giavini si pronuncia in questo modo: “Calderaio, stagnino. Potrebbe derivare anche dal latino volgare manianus (uno che lavora a mano), da manua, maniglia, diventato poi manja. Ul spiritu dul Manìa, spauracchio dei bambini, uomo nero (da manes, spiriti dei morti). Marrone ricorda la madre dei Laria, Mania, quindi divinità del regno delle ombre”.