Quanto segue è desunto da
www.melegnano.net/meneghino/dialetto.htm con qualche modifica e adattamento.
I proverbi e modi di dire qui ricordati come in uso a Dairago non sono propriamente figli partoriti qui, da noi. Hanno riscontri nella parlata di Milano e del milanese.
Aa Karlona, lett.: alla Carlona, ‘fare qualcosa tanto per fare’. Carlone è Carlo Magno?
Ai tεmpi dul Kårlu Kúdigha, lett.: ai tempi di Carlo Cotica, detto di roba molto vecchia.
Al pisa in leci e pö a l dizi k’a l e südåå, lett.: piscia a letto e fa credere che è sudato.
Detto di uno che presume di convincere confondendo un po’ troppo. Ma calcola male.
Boti da lagnamè, lett.: colpi da falegnami; ‘legnate, botte pesanti’.
Dåghi una picinåda (anche petenåda), lett.: dagli una pettinata; ‘picchiare uno’.
Dona k’a piangi e kavål k’a süda hinn fålsi ’me Güda, lett.: donna che piange e cavallo che suda sono falsi come Giuda ovvero ‘mai fidarsi di una donna che piange’.
Få e dasfå l e tütu un lauå, lett.: fare e disfare sono entrambi un lavoro, detto di un lavoro fatto maluccio e che richiede di essere rifatto.
Fåghi sü a kruzi, lett.: ‘fargli sopra la croce’ detto di una scelta o di attività che non si intende mai più ripetere. Uno stop solenne.
Finí kunt ul kü in tεra, lett.: finire col sedere per terra, ‘fallire’.
Ki gha laúa a l ghå ’na kamiza e chi gha laúa nu a gha’n ha do, lett.: chi lavora ha (si guadagna) una camicia e chi non lavora ne ha due, ovvero ‘l’ingiustizia governa’.
Kuan ke a mεrda la monta ul skågn o la spütsa o la fa dån, lett.: quando la cacca sale in trono, o puzza o fa danni.
Proverbio che mette in guardia contro il povero che acquista potere.
Par pacå, a l paciota; par bee, a l beóta. L e a lauà k’a l barbota lett.: per mangiare mangia, per bere beve, è quando lavora che si lamenta.
Detto di uno sfaticato.
S’a inn nu fråscki, a iin föi, lett.: se non sono frasche sono foglie: ‘invito a evitare giri di parole’.
Come S’a l’e nu süpa, l e pan bagnåå, ’se non è zuppa è pan bagnato’.
Skarligha marlütsu ka l e mengha ul to üšu, lett.: scivola merluzzo che non è la tua porta.
Per invitare uno ad andare altrove, ché qui non è aria.
Stå skišu lett.: stare tranquilli, senza allargarsi troppo. ‘Stare al proprio posto’.
T’he (d)a inší da kuri, lett.: tu hai così da correre! ‘Che tizio si rassegni all’idea che di strada ne ha ancora molta strada da fare’.
U εrba ghråma l’e kela k’a gha kresi püsee, lett.: l’erba cattiva è quella che cresce meglio.
Il pessimismo fa dire che nella vita son più le cose cattive che le buone.
Va a ciapå i råti!, lett.: vai ad acchiappare i topi. Esortazione per dire: ‘vai a perdere tempo altrove’.
Va kå (a) bee l’ö, lett.: vai a casa a bere l’uovo. Detto a qualcuno che non la dice molto giusta, che tenta di prendersi gioco di te.
Va föa di pee, lett.: vai fuori dai piedi, ‘lasciami in pace’.
Va skuå ’l mår kun vεrt’a umbrεla, lett.: vai a scopare il mare con l’ombrello aperto.
Per tagliar corto con chi importuna.
Va (a) da via i ciåpi. Persa la valenza scurrile quale può essere l’invito alla retroprostituzione, nell’uso quotidiano il senso è ben più lieve e spiritoso.
Vale quanto un ‘vai a quel paese!’. A proposito, Giavini trova “interessantissima” l’origine di scepå ‘rompere’, di cepå, ciapå ‘prendere’, di ciåpi ‘natiche’ e ‘uova sode tagliate a metà’. Scrive che “derivano da una radice antica klapp spaccare le pietre [...] che ha dato il tardo latino exclappare, spaccare in due [a Dairago si usa il verbo zmadzå], il piemontese sciapé ‘fendere’, e il ligure ciapura ‘primordiale trappola formata da una pietra instabile sostenuta da un bastoncino con un’esca’”.
Vεsi ind’ul kampu di cεntu pεrtighi, lett.: essere nel campo delle cento pertiche, detto di chi è impastoiato in qualcosa senza soluzione.
Vöia da lauå súltami dosu, lett.: voglia di lavorare saltami addosso, detto di uno pigro.