Il dialetto, come ogni lingua, è il risultato di una
stratificazione e consolidamento nel tempo. È una storia. Il
dialetto come “antica testimonianza delle origini di un popolo”
ricorda anche Luigi Giavini “si può paragonare [...] ad un
terreno di interesse archeologico dove occorre sondare, ripulire
per riportare alla luce anche minimi reperti che sono come i
tasselli di un mosaico che a poco a poco si rivela nella
pienezza del suo significato” (Le origini di Busto Arsizio,
Nomos Edizioni 2002, p.26).
Qui, risulta lecito instaurare il parallelo con il restauro
della chiesa prepositurale di San Genesio. Una bella e lunga
storia. Sotto il pavimento rimosso, ecco, spalando, altri strati
relativi a pavimenti e storie di altre epoche. Di altri mondi.
Così, spalando di buona lena, si è toccato lo strato legato al
Seicento e, più sotto, al Cinquecento di san Carlo Borromeo.
Poi, il Medioevo. Ancora più in basso, ecco le epoche
barbariche: franchi e, prima ancora, i longobardi. Più sotto, la
fine dell’epoca romana e il primo cristianesimo di sant’Ambrogio.
Più sotto ancora, l’epoca romana.
E lì don Felice è riuscito a far spegnere il motore della ruspa
– curioso: l’infinito latino ruspāre significa ‘scrutare,
ricercare, rastrellare’ – e a evitare che la benna (parola
derivata dal tardo bĕnna(m), di origine celtica) coi suoi denti
scavasse e rovistasse oltre. Si sarebbe arrivati all’epoca pre
romana.
Fermi, fermi con le pale, per pietà.
A quel ritmo si sarebbe arrivati ai Flintstones!